Ho letto ultimamente un libro che si chiama "Le fusa di Oscar", scritto dal dottor David Dosa, geriatra. E' un libro che mi ha fatto riflettere molto... e che mi ha fatto anche male a dire il vero, perché parla, sia pure in modo sereno e con parole semplici, di una malattia terribile, incurabile, che distrugge il paziente e le persone che lo assistono: la sindrome di Alzheimer, che ha accompagnato mio padre alla morte a soli 62 anni, dopo otto anni di malattia e di vita che vita non era più.
Oscar è un gatto, solo un bel gatto, che ha la particolare capacità di accorgersi quando uno degli ospiti della casa di cura in cui vive, ospiti spesso affetti da demenza, sta per varcare la soglia della morte. Nel suo libro, che racconta della sua esperienza reale, il medico cerca una spiegazione a questo fatto e la trova nell'odore che l'essere umano emette nelle sue ultime ore, quando con la morte delle cellule i carboidrati sono degradati in altri composti chimici tra cui i chetoni, che danno un odore caratteristico. Forse Oscar, grazie all'olfatto sopraffino dei felini, sente questo odore, e questo spiegherebbe perché si accorge che quel paziente sta morendo... ma perché decida proprio allora di accoccolarsi accanto a lui e di rimanervi fino al suo ultimo respiro, anzi finché non lo portano via, per questo no, non c'è spiegazione.
Se devo essere sincera non è il comportamento del gatto che mi ha colpita in questo libro. Della sensibilità di queste meravigliose creature che qualcuno (che non li conosce affatto) definisce egoisti, non mi stupisco più. E' per come si affronta l'argomento Alzheimer che l'ho letto con la gola chiusa, e con un torrente di ricordi che mi correva incontro e mi travolgeva senza che potessi far niente per fermarlo. Mi è successo anche qualche mese fa, guardando il bel film "Una sconfinata giovinezza"... l'ho guardato col cuore stretto, e dopo ho pianto come una bambina, per i troppi ricordi dolorosi che certe scene mi avevano fatto rivivere.
Sono passati ormai più di quindici anni dalla morte di mio padre. Silvia aveva compiuto cinque mesi e lui non aveva neanche realizzato di avere una nuova nipotina.
Quando il neurologo mi consegnò con fredda indifferenza quella atroce diagnosi, ho creduto di morire soffocata, non riuscivo a crederci, mio padre aveva solo cinquantaquattro anni, era in pieno benessere, era un uomo giovane e pieno di vita, e quella diagnosi era peggiore della morte. Non dimenticherò mai l'indifferenza di quel medico, ma soprattutto non dimenticherò mai quello che ho provato quel giorno, il dolore forte, l'angoscia del doverlo dire a mia madre, la paura per il futuro, e la pietà, la pietà immensa per quell'uomo col quale non ero mai andata d'accordo ma al quale riconoscevo comunque tutti i pregi, soprattutto quello di aver sempre aperto la sua casa a chi ne aveva bisogno o a chi semplicemente desiderava entrarci, come i miei amici. Un uomo orgoglioso, indipendente, molto attaccato alla sua famiglia, severo con i figli, troppo severo ma oggi so che faceva parte della sua educazione, un uomo del sud e della sua epoca non poteva dimostrare mai tenerezza o debolezza... eppure con i suoi nipoti era dolcissimo, si scioglieva come burro al sole, li riempiva di baci, li coccolava, li viziava, faceva insomma tutto quello che aveva negato a noi... sono felice che abbia avuto perlomeno la possibilità di conoscere i suoi due primi nipotini, di averli tenuti in braccio, di averci scherzato, Erika si ricorda a malapena di lui ma perlomeno io ho avuto la possibilità di vedere il lato tenero di mio padre, quello che credevo non esistesse.
Sono stati otto anni terribili quelli che dalla diagnosi hanno portato alla sua morte. Otto anni iniziati con il tentativo di riprendere la sua vita normale... ma la sua vita, normale non è stata mai più. Dopo il ricovero, ripreso il lavoro, passava da me a prendere l'endovenosa che gli era stata prescritta... e mi descriveva la sua confusione, si rendeva conto di non essere lucido, io sdrammatizzavo, lo stimolavo, ed avevo il cuore stretto in una morsa. Dopo pochi giorni uscì dal lavoro per recarsi in trasferta e tornò indietro dopo poco... non ricordava più cosa doveva fare.
Fu solo l'inizio. Tutto il resto non sto a raccontarlo. Otto anni di sofferenza per lui e per mia madre. Il tentativo di tamponare i peggioramenti man mano che si presentavano, i ricoveri a Firenze, la mancanza di centri specializzati e di aiuti concreti, la fase depressiva, quella aggressiva, quella ipocondriaca......fino al niente, al non essere più niente, solo un corpo distrutto. Un percorso doloroso e faticoso che ha lasciato tutti terribilmente provati, soprattutto mia madre. Ed oggi, a distanza di più di quindici anni, ancora il senso di vuoto. E' morto con la sua mano nella mia, ma non sono stata capace di fare altro che ascoltare il suo respiro rallentare, il suo polso fermarsi, non sono stata capace di piangere. Aveva smesso di soffrire, finalmente; aveva smesso di star male e far star male mia madre, ed io mi vergognavo di me, del mio sollievo, ma quella notte quello ho provato, sollievo.
Il dolore è venuto dopo. E lo provo ancora. Quando penso a quel medico ed a quelle parole indifferenti. Quando ricordo la nostra casa sempre piena di gente allegra. Quando penso al suo modo di ridere. Quando lo guardo nell'unica foto che tengo in casa, dove lui suona la fisarmonica e sorride. Quando realizzo che la sua atroce malattia gli ha tolto quella parte di vita in cui di solito si raccolgono i frutti di una vita di lavoro, noi figli eravamo ormai grandi ed accasati, la casa in cui viveva con mia madre era diventata loro, ed insieme a mia madre faceva progetti di vacanze e di viaggi da fare una volta in pensione. Non ha vissuto niente di tutto questo. Niente.
Mi chiedo se qualcosa di lui è rimasto. Non di quel povero rudere che se n'è andato quella notte di agosto, ma di mio padre, quello della mia infanzia, quello che mi portò via dall'ospedale per farmi vedere Il Libro della Giungla, quello che durante una nottata che non dimenticherò mai mi ha permesso di stare sveglia accanto a lui per guardare il primo sbarco sulla luna, quello che mi ha portata per la prima volta nel museo egizio di Torino, quello che mi ha costruito una bacheca di legno che fa bella mostra di sè nella mia cucina, quello che suonava il benjo, il mandolino, la fisarmonica, quello che mi preparò un meraviglioso falò per farmi festeggiare l'ultimo dell'anno con i miei amici, quello che mi ha accompagnata all'altare con gli occhi lucidi... mio padre l'elettricista, mio padre che sapeva aggiustare tutto, mio padre geloso e severo ma anche cordiale e socievole con tutti, mio padre intelligente, mio padre musicista, collezionista, artista, generoso, curioso, emotivo, onesto, orgoglioso... mi chiedo se può vedermi, se può sentire il mio dispiacere per tutte le grane che gli ho dato da adolescente, e per non essere mai stata capace, almeno non a parole né a gesti, di dimostrargli il mio affetto.
Dove sarai, papà.
Tu non ce l'avevi Oscar quella notte accanto a te. Avevi molto di più. Avevi i tuoi figli, i tuoi generi, tua nuora, tua moglie, tuo fratello, i tuoi amici, i tuoi parenti... la testimonianza del fatto che nella tua vita avevi meritato amore.
E per sdrammatizzare un po' concludo con una frase letta proprio in questo libro, e che mi ha fatto sorridere tra le lacrime:
"Un cane viene quando lo chiami. Un gatto registra il messaggio e ti richiama".